Storia Stefano 1

18/09/2018


“Abbandono la mia carriera per dedicarmi agli emarginati”.


Mi chiamo Stefano Casella, e voglio raccontarti come la mia vita sia cambiata in un modo decisamente sorprendente per chi mi conosce, ma credimi, soprattutto per me.

Ho 44 anni e fino ai 37 ho seguito l’iter comune, credo, a quasi tutti noi.

Mi sono laureato, e ho lavorato in diverse aziende del settore automobilistico. Dopo un periodo di giusta gavetta sono arrivati ruoli di responsabilità in progetti che sviluppavo in tutta l’Italia con qualche puntatina anche all’estero. Marketing, consulenze economiche e gestionali, attività di vario genere presso case automobilistiche e concessionarie.


Che bello, direbbero in molti. Ci insegnano da piccoli ad inseguire successo, soldi, potere e sicurezza ed io ero proprio su quella strada!


Tuttavia, chi ha esperienza di impieghi di alto livello sa che il prezzo da pagare è notevole: famiglie e vite private sacrificate a vantaggio di una produttività “h24” che spesso giustifichiamo a noi stessi, dicendo: “Eh, lo faccio per il mio futuro e per quello della mia famiglia!”. Appunto. Paradossale, non trovi?

E la vita scorre fra un: “Oddio è lunedì” e “Dai, che è quasi venerdì”. Frasi che ricorrevano spesso nel mio quotidiano, chissà se capita anche a te.

Ma insieme al professionista cresceva l’uomo.

Le domande, i dubbi, le riflessioni e le situazioni della vita si alternavano, e sempre con lo stesso leitmotiv: perché?

Possibile, mi chiedevo, che siamo qui per un mutuo, una casa, un po’ di sicurezze, mentre moriamo lentamente a noi stessi? In effetti tra noi ed un robot, alla fine, che differenza c’è?


Non ero il solo a perdermi in questi pensieri. Molte persone, infatti, condividevano con me queste domande. Poche, però, avevano la voglia, il coraggio o forse solo la semplice possibilità di cercare una risposta, che non si spegnesse nel soffocante schema di una società miseramente produttiva ed alienante. 


E come spesso avviene, in modo apparentemente casuale arrivò lo scossone.


In un momento di particolare sconforto e riflessione un caro amico mi portò davanti ad uno specchio e mi disse: ”Guarda, guarda bene, perché quello che vedi è l’unico che devi ascoltare ora! Il resto non conta. Non sei felice? Segui quello che senti!”


Perché proprio in quel momento, perché proprio in quel modo io non lo so. Ma ho fatto un “click”. La classica lampadina che si accende, il famoso “eureka”, che mi ha fatto decidere che sì quello che sentivo, o forse sarebbe meglio dire quello che non sentivo, valeva la posta più alta: la mia vita. 


Era l'11 gennaio del 2011


Ho lasciato lavoro, fidanzata, sicurezze e di fatto una parte profonda di me.

Ho affrontato capo (se sapessi quanto ci ho messo ad uscire dal bagno dove mi ero rifugiato per andare a rassegnare le dimissioni), colleghi, genitori, fratelli, amici, che ovviamente non hanno capito perché stavo cestinando la mia carriera in quel modo.


Alle espressioni stupite sui loro volti, rispondevo sfacciato e sereno: “Ah nemmeno io lo so. Ma so che dove sono ora non va. Tanto mi basta.”

Questa è la versione romantica della scelta, ma chiaramente c’è il suo lato pratico, immediato e quotidiano. Cercavo un mestiere più gratificante, una vocazione più chiara, non lo so. Sicuramente un qualcosa che spiegasse una decisione del genere.

Ho affrontato dubbi, difficoltà, solitudine, ma mi accompagnava sempre tanta pace.


Quando fai una scelta così drastica sai che le responsabilità da affrontare saranno tante, un po’ come quando decidi di unire la tua vita ad un’altra persona. I miei genitori mi ripetevano spesso:


“Ci vuole poco ad andare all’altare e dire sì, tutt’altro impegno ci vuole per restare insieme una vita!”, (che gioia mi hanno dato accettando e spronando la mia scelta).


Ho sempre avuto una strana e, per molti versi, scomoda vocazione ad accorgermi di chi mi stava intorno, di chi per uno strano, casuale e sconveniente gioco del destino era ai margini rispetto a me, a noi. 


“Ok, partiamo da qui, mi sono detto. Partiamo da qualcosa che sono e non da qualcosa che credo”.


Ho speso i primi anni facendo volontariato in ospedali, associazioni per disabili, anziani, entrando a contatto con le emarginazioni più diverse.

Con il tempo, sono diventato sempre più consapevole e fiducioso in questa mia nuova strada tanto che ho deciso di viverla in prima linea creando una mia associazione: L’Emanuele.


Ho lasciato così che gli emarginati, come troppo sbadatamente li chiamiamo, diventassero la mia vita.

Ma che evoluzione c’è nel passare da una vita spesa a mangiare comodamente seduto ad una tavola ad una inginocchiato, per imboccare chi sta sotto e si ciba solo delle briciole?

Per anni me lo sono chiesto. Sono stato incosciente a lasciare tutto? Oppure uscire dallo schema richiede una sana follia che la mente rifugge ma che solo il cuore comprende e solo il cuore può istruire?

Consapevolezza, forza, fiducia, perseveranza, abbandono. Queste sono le materie che ora studio ogni giorno alla “scuola del cuore”.


E sì, ho dovuto riconoscerlo. Sono più felice di prima.


Mentre scrivo guardo Stefano, Romeo, Fiorella, Salah, Mohamed, Costantina… tanti, così diversi tra loro con le loro storie di solitudini ed emarginazione.


C’è chi gioca, chi vede un film, chi si riposa dopo una notte trascorsa insonne e sotto la pioggia. C’è chi piange e si sfoga per una vita ormai spenta, ma c’è anche chi ride, contento di un momento di normalità.


Li osservo e penso: sono loro adesso la mia famiglia. Sono loro il motivo per cui mi alzo ogni mattina! Chi lo avrebbe mai immaginato…


I loro occhi sembrano appartenere a tanti piccoli uccellini con la bocca aperta che chiedono, ognuno a proprio modo, la loro dose di cibo e vestiti, ma ancor più di considerazione ed accoglienza. 


Sì perché, in fondo, non è la prima cosa che tutti noi cerchiamo? 


Li guardo, mi commuovo. E mi sento a casa.


Stefano

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